Concorso letterario sul paesaggio

2022 Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Cagliari e Oristano. Concorso nazionale “linee di paesaggio”
2° classificato, nella sezione narrativa

RITORNO AL PAESAGGIO

Arrivò il virus, e si usciva di casa solo per lo stretto necessario. Poi scesero i lupi dalle montagne. Apparvero anche gli orsi. Nessuno osava più mettere piede fuori. Infine arrivò l’acqua alta. Sì, l’acqua alta fino a Nuoro. Chi l´avrebbe mai detto!

E anche più su. L’acqua arrivò anche al nostro edificio, che stava nella parte alta della città.
Le famiglie cominciammo a spostarci ai piani superiori, occupando gli appartenenti di chi era fuggito in montagna. L’acqua saliva e noi tutti ci spostavamo su. Si stava stretti. Cominciammo a smantellare le pareti dei piani in basso per riutilizzarle in alto, lasciando solo le colonne portanti. Un piano di meno sotto, un piano di più sopra, e l´edificio cresceva su zampe sempre piú esili. Non eravamo gli unici. Vedevamo attorno altre torri alzarsi, e comprendevamo quanto alti fossimo cresciuti.
Cosi mi raccontava mio padre, ricordando le parole che gli diceva suo nonno.Non ho mai conosciuto mio bisnonno, fu dell’ultima generazione che aveva vissuto a terra. Due generazioni nacquero e vissero lassù, con l´acqua tutt´attorno. Quando arrivai io, l´acqua era scesa, però nessuno pensò di tornare a terra.
“Lì c´è il mare , lo vedi?” e il dito di mio padre indicava in basso, una lingua scura in fondo alla valle. Me lo diceva a bassa voce, come temendo provocare la collera in quell’acqua.
In verità io non capivo quella paura. Al contrario, mi sarebbe piaciuto andare a vedere il mare, e di passo approfittarne per conoscere il mondo fuori.
“E perché non scendiamo a terra?” Gli domandai una volta. Gli sorrisi complice come quando gli proponevo di giocare a battaglia di cuscini sul letto grande.
La faccia gli si fece paonazza. “Sei matto! – mi gridò – Lì sotto si sparisce . Ci sono lupi, streghe e malefici che nemmeno sai”.
Non l’avevo mai visto cosi accalorato.
“E poi quassù stiamo bene. Non andiamo a cercarci guai” mi disse in tono ragionevole, suppongo per nascondere la sua esplosione d´ira.
Nei giorni successivi mi guardava strano, pareva non capacitarsi che avessi avuto quell´idea. Mi prendeva per matto? O forse era preoccupato? La notizia della mia domanda si sparse veloce. Dal giorno successivo mia madre e i vicini colsero ogni occasione per parlarmi dei pericoli del mondo fuori.
Il dentro era l´unica dimensione accettabile. Il fuori era tabù.
Una volta ne parlai con un compagno di classe, suppongo mi aspettassi da un bambino una reazione differente. La scuola era all’ultimo piano, il più sicuro perché lontano da terra, e dall’acqua. Dalle finestre, con le perenni tapparelle abbassate, si intravedevano le curve dei rilievi circostanti. Gli accennai di come sarebbe stato bello giocare là fuori, indicando dove la luce del sole si scomponeva in raggi dietro una montagna. Si mise a gridare terrorizzato. E mentre volevo avvicinarmi per tranquillizzarlo, lui ruotava le braccia come mulini per mantenersi a distanza. Non mi rivolse più la parola.
Imparai a non parlarne. Però quanto più nascondevano lo spazio fuori, tanto più sentivo crescere in me il desiderio di conoscerlo.Più avanti mi feci amico con un altro compagno: Vittorio. Il nostro gioco favorito divenne presto l’esplorazione della torre. Vedevo come gli brillavano gli occhi quando si andava alla scoperta. Anche piccole cose ci entusiasmavano. Non ci volle molto a diventare grandi amici.
Il passo decisivo fu l’ingresso nel gruppo di Alice. Più matta di tutti. Ci diceva che la terra era nostra madre. Che ci avevano rapiti da piccoli e che dovevamo tornare da lei. Lo diceva spalancando i suoi occhi, già di per sé grandi, come se la vista avesse soppiantato la voce nel spiegare le cose. O forse voleva dirci: “giudica con i tuoi occhi e smetti di credere a quello che ti raccontano”.
E a pensarci adesso, mi rendo conto di come la nostra giovinezza fino ad allora fosse stata imperniata sulle cose trasmesseci e così poco sulle scoperte personali.Con Alice iniziò la grande avventura.
Durante le nostre esplorazioni, scoprimmo la botola che si apriva sul fondo del piano 7, il più basso rimasto. Ci costò entrare in quella stanza, chiusa con catene dal servizio di sicurezza condominiale. D’altro lato a nessuno interessava quello spazio e una volta che riuscimmo a entrare, divenne il nostro segreto rifugio.
Al centro del pavimento v’era una botola incernierata su un lato. La alzammo e ci apparve il vuoto sotto. Ci costò abituarci a quella vista. La prima volta la richiudemmo all’istante, spaventati da quella immagine così nitida dello spazio aperto.Passammo intere giornate distesi su cemento, resistendo al freddo che si infiltrava tra gli indumenti e con la cornice della botola gelida tra le nostre dita contratte. La vista sul vuoto ci spaventava. Ma allo stesso tempo attraeva. I nostri occhi iniziavano ipnotizzati sulla proiezione dell’edifico a terra. Vedevamo laggiù le tracce delle pareti e delle scale di un tempo. Alice diceva che quei primi gradini interrotti erano i nostri cordoni ombelicali recisi. Che lì avremmo trovato risposta a tutte le nostre domande.
Poi, titubanti , alzavamo gli occhi sullo spazio circostante. Ci volle del tempo per lasciare spaziare la vista liberamente, senza la morsa allo stomaco che ci dava quell’infinito.
Chiudevamo una mano a pugno lasciando un pertugio di luce al centro e la portavamo all´occhio. Con questo cannocchiale scrutavamo l’orizzonte. Spostavamo lentamente la visuale cercando forme geometriche che supponessero una origine umana. E ci pareva di vedere altre torri, come le nostre di Nuoro , forse anch’esse abitate. Ci immaginavamo altri mondi, e anche battaglie per difenderci contro chi voleva attaccarci.
Ricordo come una volta Alice sia sbottata in una gran risata. “Ma voi sempre alle guerre pensate!?- e continuò – Se c’è d’avvero gente lì, allora ci saranno anche ragazzi , che come noi vogliono volare fuori, scoprire, raccontarsi, …. Piuttosto che guerre, cerchiamo di essere noi i primi ad arrivare da loro!”
Vittorio ed io ci guardavamo straniati. Già i boschi e la natura ci incuteva sufficiente timore. Figurati dover aver a che fare anche con altri esseri, mostri o pazzi spietati.E mentre spaziavamo lontano, sentivo le mie mani stringersi alla cornice della botola, e la paura condensarsi umida sulla mia fronte. A volte nel mio campo visuale vedevo una goccia del mio sudore spiccare il salto. Istintivamente i miei occhi la seguivano verso il baratro sottostante, e allora si che lo stomaco si contraeva forte. Come se quella minuta goccia trascinasse giù tutto il mio essere.
Una sera, rientrato a casa, mia madre mi ricordò di lavarmi bene le mani (nella torre tutti erano maniaci dell´igiene). Mi vide i segni marcati nell´interno delle dita e mi domandò cosa mi fosse successo. Al riconoscere le linee della botola, il pensiero tornò veloce all’immagine del vuoto sottostante. Per un attimo pensai che mia madre avesse visto quel barato nei miei occhi. Girai veloce il viso. Mi aveva scoperto? Rimasi paralizzato. Non so come la mia bocca seppe inventare una spiegazione. Ascoltai come le parole mi uscirono facili dalle labbra: avevo tenuto il digitale in mano fino ad allora, l’ avevo stretto forte appassionato per il nuovo gioco. Alzai gli occhi con un lieve sorriso e vidi come la tensione sul volto di mia madre si scioglieva. Mi farfugliò i capelli con la sua mano calda e mi disse allegra: “Bravo il mio bambino, gioca con il digitale, che impari e cresci”.
Quella sera a letto, rimasi a riflettere sulla giustificazione che avevo inventato. Non mi piaceva dire menzogne, ma era stata una necessità . Mi domandavo se un giorno avrei potuto raccontare questo evento a mia madre e scherzarci su, come ridicolezza del passato.
Ne avevamo ancora di strada per superare le paure e liberarci dei modelli inculturatici da anni.Con Vittorio e Alice parlavamo spesso della pianta del nostro edificio proiettata a terra, un’ombra immutabile indifferente al sole e al divenire del giorno.
Quella pianta di poche linee era il nostro passato. Ma era anche il futuro : il ponte per raggiungere il mondo circostante. Suppongo che anche loro lo inquadrassero come tappa necessaria. Eppure nessuno aveva ancora osato parlare dell´impresa. Seguimmo sognando.La nostra suggestione si alimentava l´uno con l´altro. Andavamo immaginando idee e situazioni. Imparammo a creare i nostri propri sogni. Ci avevano inculcato cosa sognare, soprattutto attraverso quel digitale onnipresente nelle nostre vite. E ora eravamo noi a creare, a immedesimarci nel mondo circostante, e giocare combinando le infinite possibilità della vita.
Quei sogni furono una preparazione al grande passo. La fantasia ci permise di vincere i timori, le paure costantemente ribadite dalla cultura della torre.
Non fu facile. Eravamo coscienti di quanto poco sapessimo e che c´erano pericoli li fuori. Però avevamo dalla nostra la fantasia. E forse anche una affinità con il paesaggio che le tre generazioni vissute in cattività non avevano ancora perso.Fu Vittorio a suggerire l´idea delle corde. Per salire e scendere noi conoscevamo bene le scale, strutture solide, però impensabile che potessimo costruirle.
La corda è leggera, resistente, e basta appendersi per scendere . Dovevamo solo imparare a risalire, se non volevamo recidere totalmente il contatto con casa. Alice, con la sua fissazione su madre natura, disse che quelle corde erano un cordone ombelicale, e che comunque un giorno avremmo dovuto recidere. Ricordo che ne seguì un silenzio. A me piaceva la scoperta, però non potevo allora immaginare un vita senza mio padre e mia madre, senza la mia stanza, e tutto quello che per me era casa e sicurezza.
Per Vittorio e per me era chiaro che dovessimo essere in grado di risalire. E definimmo un piano di allenamenti. Nella torre lo sport era limitato a salire e scendere le scale, avevamo gambe forti, pero braccia mingherline. Iniziammo ad allenarci nella rampa delle scale, tirandoci su per il mancorrente. Ai vicini raccontavamo che era un nuovo gioco. Naturalmente non piacque a nessuno. Nella torre gli unici giochi ben accetti erano quelli del digitale. E allora noi ci allenavamo nell’ora della pennichella per non attirare troppe attenzioni. Qualcosa si progrediva, soprattutto Vittorio, il più forte. Però riuscire a salire sette piani a braccia rimaneva una meta lontana.
D´altro lato continuavamo con i nostri incontri nel rifugio segreto, scrutando ogni millimetro del paesaggio circostante. A volte ci parve di vedere delle figure umane. Però non fu mai una certezza. Forse animali?
La voglia di metter piede a terra cresceva.
Alice ci proponeva di scendere comunque, anche senza avere le braccia pronte per risalire. Una volta a terra ci sarebbe pur venuta un’idea. E lì sotto, potevamo comunque contare su tanti materiali per costruire una risalita.
Alice era sempre entusiasta, niente la spaventava. Mentre Vittorio e io rimanevamo sul prudente.Però un giorno fu diverso.
Ricordo bene quella mattina, una giornata di primavera. I raggi del sole brillavano sulle foglie sotto di noi, come un mare verde. Una brezza calda veniva dal basso ed entrava per la botola. Al contrasto con il freddo del cemento quel calore ci dava piccole scosse di piacere.
Dall´orizzonte ci arrivavano suoni. Forse cinguettii d´uccelli? Altri erano regolari, “Che siano campane?” interrogò Vittorio a bassa voce. C´erano altri ragazzi, da qualche parte di quell’orizzonte, come aveva suggerito Alice?
Il mondo era luminoso ,sereno e dolcemente tiepido. Tutto era li a invitarci.
E noi non ci tirammo indietro.Carichi d´entusiasmo facemmo rapidamente il piano e ci rimboccammo le maniche.
Primo scesi io. Alice mi legò un capo della corda in vita, e fece passare l´altro capo attorno ad una trave del soffitto per frenare la discesa, poi con Vittorio mi calarono. Mi sorpresi a non essere terrorizzato, come mi ero immaginato tante volte quel momento. La terra si avvicinava, sentivo il calore sulla pelle, la discesa mi inebriava, chiusi gli occhi e mi rilassai ascoltando il mio respiro.
Toccai terra. Feci dei salti, per provare che fosse solida. Vidi l’impronta lasciata dalla mia scarpa nella terra morbida. Niente di freddo. Anche il tondino d’acciaio che sporgeva li vicino era tiepido al tatto.
I richiami di Alice e Vittorio dall’alto mi riportarono alla realtà. Gli comunicai “tutto OK” alzando il pollice. E poi sventolai le braccia pieno di allegria. Mi sciolsi la corda. Al vedere il capo risalire, mi colse un´attimo il panico. Sono solo, forse l´unico qui sulla terra, e se adesso qualcuno entrasse e chiudessero la botola? Una brezza di vento caldo passò e quel pensiero cupo svanì.
Dopo di me scese Alice. Quando arrivò si mise a ridere come un pazza. “Siamo liberi, siamo liberi” mi gridava. Non stava ferma, non riuscivo a slegarle la corda dalla vita.
Poi Vittorio calò la restante parte della corda mentre io la ordinavo in cerchi al suolo. Vidi che se la strinse in vita e sentii lo strattone. Era il segnale che era pronto; questa volta fummo Alice e io dal basso a controllare la corda.
Quando anche Vittorio mise piede a terra, si sciolse in noi tutta la tensione accumulata. Non solo di quella mattina, anche per quegli anni passati a sognare e preparare. Cominciamo a ridere come matti, ad abbracciarci, a dare salti.

Quel giorno iniziò la nostra nuova vita. La prima vera vita. Eravamo stati educati per ripetere rituali estranei, e ora iniziavamo a vivere in un paesaggio reale.
Non fu sempre facile, effettivamente incontrammo difficoltà e dolore, però mai mi pentii per quel passo. La bellezza di questo mondo fuori è indescrivibile e non potrei vivere senza la felicità mista a orgoglio di farne parte.
Nel dubbio che volessimo tornare, lasciammo la corda dov’era, in balia del vento.
A volte, di passaggio per quelle valli, scrutavamo l´orizzonte. Nel pertugio al fondo del pugno, come allora, cercavamo l´edificio. E appariva nuovamente, appesa alla torre grigia, la nostra corda. Rimanevamo in silenzio, una specie di preghiera per gli ignari rimasti dentro, e poi immancabilmente uno di noi diceva: “C´è ancora il nostro cordone ombelicale! Torniamo dentro?”
E scoppiavamo in una gran risata.

FINE.


Assegnati premi del concorso nazionale Linee di paesaggio. Ansa Saerdegna. 29/1/2022.

Concorso d’arte “Linee di Paesaggio” – Terza Edizione. Bando. Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna. 31/8/21


Nota dell´autore

L´idea di questo racconto nasce durante i tempi di coprifuoco del covid. Inizialmente ripudiato , la clausura mi condusse ad un fertile periodo di riflessione e di creatività.

La mia ricorrente preoccupazione riguardó i miei figli e la progressiva riduzione d’interessi nelle loro vite. In quella stretta convivenza scopro quanto lo schermo digitale abbia monopolizzato il loro tempo.
Prima dell’avvento dello smartphone gli interessi tra i giovani erano molto eterogenei. Ricordo tra i miei compagni di classe gli appassionati di football, ma anche chi si dava alla letteratura, e chi suonava in un gruppo. Ricordi quelli un po’ matti e i silenziosi osservando gli avvenimenti. Era un mondo vario, in cui le differenze incuriosivano e aprivano nuove porte. Le passioni poi a volte cambiavano, un devoto del calcio passava a interessarsi di libri, e il matto esuberante diventava un mistico religioso. E in questi cambi rinnovavamo amicizie, moltiplicavamo i nostri interessi e scoprivamo il mondo con gli occhi e con la pelle.

Forse con l’avanzare dell’etá sto perdendo la capacità critica cadendo nel tipico irrigidimento di cui si accusano i vecchi: non sanno capire i nuovi tempi e prima era tutto meglio.
Resta comunque questo dubbio sul mondo virtuale in cui mi parecche i giovani si vadano sempre piú rinchiudendo. Potrei ancroa distinguere due gruppi: quello dei colli piegati in giù, intrattenuti dai contenuti della rete , e quello delle braccia stese che, cellulare alla mano, preoccupati di promuovere in rete la propria immagine.
E non si tratta nemmeno più dei giovani. In tutte le fasce , anche tra i più anziani , aumentano gli adepti dello schermo.

In quei mesi di covid ho provato a proporre alternative ai miei figli, però difficile contro il potere del cellulare. É una competizione sleale. Sono passato alle proibizioni e ai castighi. Sono seguite le guerre. Ma con la forza , si sa, non si vince.
Questo racconto è il mio tentativo, dopo tante grida, di trasmettere nel silenzio di un sogno un messaggio.

Lo schermo è l’antipaesaggio.
Il paesaggio, per dare una definizione generale, è il mondo reale intorno a noi. Puó essere la natura, ma anche l´ambiente costruito e abitato circostante.
Il paesaggio è un mondo a quattro dimensioni, dove spazio e tempo si muovono con noi. Un mondo che ci offre un orizzonte a 360 gradi colmo d’imprevedibili eventi.
Il cellulare è l’opposto. Un mondo limitato a pochi centimetri quadrati, ceh vediamo sotto un ristretto angolo visuale , dove gli eventi sono predisposti in partenza.

Giovani e adulti stiamo progressivamente barattando l’incommensurabile paesaggio con lo schermino, attirati da colori sgargianti e suoni persuasivi.
Non usciamo più ad ammirare la natura, non passeggiamo piú per le strade, e vanno sfumando incontri e sorprese che dietro ogni angolo la vita ci prepara. I nostri occhi lentamente si chiudono e la mente si accoda inerte.

In questo racconto ho portato all’estremo questa situazione. Si narra un futuro dove il paesaggio è diventato pauroso, gli uomini vivono chiusi in edifici senza porte, la cui vita è guidata da uno schermo digitale.
Saranno tre giovani che, dopo generazioni in cattività, riscopriranno il valore del paesaggio.

 

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Author: admin

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